“Ecco come possiamo difenderci”. La ricercatrice che ha isolato il Coronavirus

19 Marzo 2020 - 10:51

“Ecco come possiamo difenderci”. La ricercatrice che ha isolato il Coronavirus

“Ecco come possiamo difenderci”. La ricercatrice che ha isolato il Coronavirus

“Stiamo seguendo una situazione in evoluzione. E navighiamo a vista, nel senso che è necessario adattarsi velocemente agli avvenimenti”: a parlare è Maria Capobianchi, che dal 2000 dirige il laboratorio di virologia dell’ospedale Spallanzani di Roma, l’istituto italiano in prima linea sulle emergenze legate alle malattie infettive, dove è stato isolato il Sars- Cov2 dal primo paziente diagnosticato in Italia. Una storia raccontata da Capobianchi in un lungo saggio-intervista, Coronavirus, a cura di Benedetta Moro, pubblicato in questi giorni da Castelvecchi. In queste giornate convulse la ricercatrice ha accettato di rispondere alle nostre domande, nel tragitto tra la sua casa e l’istituto dove lavora. Partendo da quanto è accaduto da quando il libro è andato in stampa.

“Intanto- spiega Capobianchi – si sta muovendo la collaborazione internazionale, a partire da quella che si definisce Epidemic Intelligence, un settore della sanità pubblica che si occupa di scovare eventuali segnali di allarme, basati su malattie che si verificano con frequenza superiore a quella attesa, per capire se sta accadendo qualcosa di anomalo, e avviare indagini più approfondite”.

Qualcosa che siamo arrivati a definire pandemia, un termine che fa paura. Giustificata?
«La situazione è seria ma il termine pandemia fa riferimento alla diffusione dell’infezione, non alla sua gravità. Esistono pandemie lievi, questa è considerata di gravità moderata, come la maggior parte delle infezioni virali che si diffondono: anche se l’enorme numero dei casi può rappresentare una seria sfida e avere un impatto globale molto grande».

La cooperazione internazionale lavora anche su farmaci e vaccini?
«Per quanto riguarda i vaccini ci sta lavorando su “piattaforme”, le basi di partenza del vaccino, che poi sono adattate a ogni specifico virus: c’è stata un’accelerazione importante, ma ovviamente serve tempo e rigore, per valutare l’efficacia dei possibili vaccini. Non bisogna farsi prendere dalla fretta».

Per i farmaci il percorso sembra più semplice…
«Lo è, perché è possibile utilizzare molecole già usate per trattare altre infezioni, con quello che si definisce uso compassionevole. Ovviamente è necessario partire da una base scientifica plausibile per cui quel determinato farmaco potrebbe essere utile. Per esempio gli inibitori delle proteasi, farmaci già utilizzati contro l’HIV, potrebbero essere efficaci perché bloccano un enzima, appunto la proteasi, importante per la produzione delle proteine del coronavirus.  Mentre altri farmaci sviluppati per Ebola potrebbero inibire anche l’enzima che replica il genoma del coronavirus».

Si stanno sperimentando anche farmaci che agiscono sul sistema immunitario, come quelli utilizzati per l’artrite reumatoide.
«In questo caso parliamo di farmaci host directed, perché non agiscono sul virus ma sulla risposta dell’organismo a questo, per esempio bloccando la risposta infiammatoria. L’ipotesi è che in alcuni casi la risposta difensiva dell’organismo possa essere eccessiva, contribuendo ad aggravare la malattia. Questa potrebbe essere una delle spiegazioni del fatto che in alcuni casi il virus sembra colpire in modo molto aggressivo anche persone giovani e sane. Questa classe di farmaci quindi non blocca il virus, ma inibisce l’eccessiva risposta difensiva al virus stesso».

In generale, sono soprattutto gli anziani a essere a rischio.
«Come avviene per qualunque malattia respiratoria, anche la comune influenza, che è più rischiosa per i soggetti fragili, soprattutto per i cardiopatici per cui l’insufficienza respiratoria causata dall’infezione è particolarmente pericolosa».

Le donne però sembrano meno colpite degli uomini, a prescindere dall’età.
«E’ uno degli interrogativi sollevati dalla biologia di questo virus: per ora non abbiamo una risposta precisa, si stanno formulando varie ipotesi. Sicuramente incidono fattori ormonali e metabolici, e forse anche lo stile di vita.  E anche il sistema immunitario può presentare delle differenze in base al genere che, per via indiretta, possono influenzare la risposta alle infezioni».

In attesa di terapie, come proteggersi? Si parla molto della necessità di sottoporre più gente ai tamponi.
«Fare tamponi a tappeto nella popolazione non ha senso: il tampone “ fotografa” la situazione, ci dice se c’è un’infezione in corso in quel momento, ma farlo a persone asintomatiche non ha senso. E chi ha sintomi, se non è grave, non deve fare l’eroe, ma stare in casa senza mettere a rischio la comunità».

E per quanto riguarda le misure di sicurezza da adottare?
«Stiamo ancora imparando a conoscere questo virus, ma i principi di base sono quelli che già conosciamo: come la maggior parte dei virus che colpiscono l’apparato respiratorio, il Coronavirus entra nell’organismo attraverso le vie respiratorie, soprattutto naso e bocca. Possiamo essere raggiunti dalle goccioline che le persone vicine a noi emettono quando tossiscono, starnutiscono o parlano, oppure contagiarci toccando oggetti o persone che sono contaminati: per questo è fondamentale rimanere distanti dagli altri, e lavarsi spesso col sapone che contiene sostanze che sciolgono l’involucro del virus, oppure con altri disinfettanti».

Tutti cerchiamo di sfuggire al virus, lei ci lavora; le succede di avere paura?
«La virologia è una disciplina affascinante, che spesso si sceglie già durante gli studi universitari. Quanto alla paura, si fronteggia coll’addestramento e con misure di sicurezza adeguate che ci permettono di controllare il rischio. Misure che sono necessarie in tutti i laboratori dove si lavora con campioni biologici, ma ricevono un’attenzione particolare nei laboratori in cui i virus vengono coltivati».

Ci sono maggiori rischi?
«Oltre al rischio per chi li manipola va anche considerato il rischio di diffusione nell’ambiente, quindi devono essere adottate delle misure di biocontenimento. Noi siamo abituati a lavorare con virus che richiedono queste precauzioni, non solo con il coronavirus responsabile della COVID-19, che ora sta monopolizzando l’attenzione. Un altro dei problemi che non bisogna passare in secondo piano è la resistenza dei batteri agli antibiotici: un problema che in questo momento non sembra più agli onori della cronaca, ma che si sta radicalizzando e causa ogni anno migliaia di morti».

Eppure di questo si parla poco: questo libro vuole contrastare anche la cosiddetta “infodemia”, l’epidemia di informazioni non sempre attendibili che circolano?
«E’ un problema serio, ripeto continuamente che bisogna ascoltare fonti ufficiali, autorevoli: si vedono in giro troppe notizie del tutto prive di fondamento, che purtroppo rimbalzano e vengono riprese anche dai media».
Fonte: Repubblica.it