“Sono stata venduta dai jihadisti come schiava sessuale 14 volte. Non posso dimenticare la prima volta che mi hanno violentata”. E’ il terribile incubo vissuto da Shatha Salim Bashar, una donna yazida di 28 anni, sopravvissuta ai carnefici dell’Isis. Nell’agosto 2014, gli uomini del sedicente Stato islamico attaccano Kocho, il suo villaggio ai piedi della montagna del Sinjar, nel Kurdistan iracheno. Inizia un esodo di massa che vede oltre mezzo milione di yazidi fuggire di fronte all’avanza imparabile delle bandiere nere dell’autoproclamato Califfato. Anche Shatha prova a scappare, ma viene catturata assieme alla madre, la sorella e due fratelli più piccoli. E’ l’inizio dell’inferno durato per tre lunghi anni prima della sua liberazione avvenuta nell’inverno del 2017. La sua è una testimonianza preziosa perché il mese prossimo si apre in Germania il processo contro uno dei suoi presunti rapitori, uno dei tantissimi foreign fighter europei accorsi in Siria e Iraq a lottare nelle fila dell’Isis. E lei ci sarà, per raccontare tutte le violenze perpetrate dagli estremisti islamici nei confronti degli yazidi.
Per Shatha, l’orrore inizia il primo giorno di prigionia. Prova a fingersi la madre del fratello di tre anni: se i miliziani dell’Isis credono non sia più vergine – è la sua speranza – eviteranno di violentarla. Ma lo stratagemma non funziona. Rivenduta come schiava sessuale per ben 14 volte, l’esile donna è abusata da ognuno dei suoi aguzzini. Fanatici che non esitano ad utilizzarla anche come scudo umano in Siria, nel corso di una battaglia in cui Shatha vede morire la sua migliore amica, finita come lei nelle mani dei jihadisti. Al supplizio per le violenze quotidiane, c’è anche il tormento di vedere come i suoi due fratellini finiscono per essere indottrinati dai miliziani al culto della morte. I due piccoli di 8 e 3 anni, infatti, sono diventati “cuccioli del Califfato”, addestrati al combattimento e impiegati nelle missioni suicide. Ancora oggi, dei due fratelli di Shatha non ci sono tracce. Lo stesso destino di circa 3.000 yazidi, la maggioranza donne e bambini, che risultano ancora dispersi.
Nel 2014, il gruppo terrorista era riuscito a conquistare velocemente il nord dell’Iraq e molte donne yazide sono state ridotte a schiave sessuali dagli uomini di Al Baghdadi. Un’inchiesta del New York Times del 2015, aveva svelato che l’Isis pianificò nei minimi dettagli il rapimento e la violenza carnale di centinaia di yazide. Nella loro “teologia dello stupro”, i vertici dello Stato islamico non solo tolleravano gli abusi sulle “infedeli”, ma addirittura li incoraggiavano. I combattenti islamici avevano anche il diritto di vendere le donne loro prigioniere e i prezzi venivano fissati dall’organizzazione. Nel 2015, era stata scoperta una copia del “listino del sesso” dello Stato Islamico: un bambino di età compresa tra 1 e 9 anni “costava” circa 165 dollari, le adolescenti 124; le donne sopra i 40 anni, invece, avevano un prezzo minimo di 41 dollari.
Circostanze confermate dai racconti delle donne che sono riuscite a scappare ai loro rapitori. Lamiya Aji Bashar, vincitrice del Premio Sakharov per la libertà di pensiero nel 2016, dopo essere stata sequestrata dagli estremisti del Califfato è stata condotta a Raqqa, in Siria, e trasformata in oggetto sessuale. Oppure Nadia Murad, la giovane donna yazida, sopravvissuta alle violenze dell’Isis e insignita del premio Nobel per la Pace nel 2018. Le prove delle sistematiche violenze sessuali dei jihadisti sulle donne irachene sono state raccolte anche da diversi gruppi per i diritti umani come Human Right Watch e Amnesty international. Durante l’avanzata dell’Isis nell’estate del 2014, circa diecimila membri di questa comunità religiosa del nord dell’Iraq sono stati uccisi.
Dalla schiavitù sessuale al Nobel per la pace. Nadia Murad, la “fenice guerriera”
La liberazione di Shatha è stata la fine di un incubo, tuttavia, il suo futuro rimane incerto, come quello di migliaia di yazidi. Lei e la sua famiglia sopravvivono in un campo profughi alla periferia della città curda di Duhok. “Non possiamo passare tutta la nostra vita nei campi – ha sottolineato Shatha – vogliamo ritornare a casa. Ma non possiamo farlo senza sicurezza”. La liberazione di Mosul nell’estate 2017 e la fine del Califfato, infatti, non hanno significato anche la scomparsa di decine di estremisti islamici che rimangono ancora una minaccia in Iraq e Siria. “L’Isis potrebbe tornare e riorganizzarsi – ha affermato Pari Ibrahim, direttrice della Free Yezidi Foundation – ci sono molti miliziani che stanno aspettando un’altra opportunità per riprendere gli omicidi e gli stupri di massa”.
Per gli yazidi, il bisogno di sicurezza va di pari passo con la necessità di giustizia. Per questo, il mese prossimo Shatha andrà in Germania e affronterà uno dei suoi presunti stupratori in tribunale. E la dolorosa rievocazione del suo trauma significherà anche ricordare al mondo la follia criminale dei fanatici del sedicente Stato islamico.
fonte: Fanpage