Nove anni dal delitto Yara, quando ancora non avevamo sentito parlare di Ignoto 1
Era il 26 novembre 2010 quando Yara Gambirasio faceva il suo ultimo allenamento nella palestra del Centro Sportivo di Brembate di Sotto. Nove anni, tre sentenze e un numero infinito di servizi televisivi e articoli di giornale sono passati da allora, anche se agli occhi di questo Paese sfinito dalle speculazioni e dal bieco voyerismo, sembra un tempo lontanissimo. Sbiadiscono dietro le nostre spalle gli amori della scomparsa Ester Arzuffi e dell’autista di Gorni, Giuseppe Guerinoni, morto prima che la soap opera in tinta noir del caso Gambirasio gli franasse addosso in tutta la sua dirompenza. Si fa sempre meno vivido anche il sorriso di Yara, incorniciata nella gioia di vivere di vivere dei suoi 13 anni, di cui oggi restano solo poche foto sgranate.
Ciò che resta è invece un’indagine unica nel suo genere, oltre i confini della realtà, almeno di quella che conoscevamo. Tutto è iniziato con la scomparsa di una ragazzina di 13 anni. Studentessa, ginnasta, figlia del geometra bergamasco Fulvio Gambirasio e di Maura Panarese, di origini salentine, Yara viene vista per l’ultima volta dalle amiche uscire dalla palestra e poi fa perdere le sue tracce. Siamo a Brembate, minuscolo comune alle porte di Bergamo, dove nel giro di pochi giorni si assiepano gruppi di giornalisti, fotografi, volontari, curiosi. Si parte la mattina alle 9, si torna la sera alle 21, tutti a cercare la piccola Yara nella neve, nei corsi d’acqua, nei pozzi. Poi, tre mesi dopo, il 27 febbraio 2010, un appassionato di modellismo trova per caso il corpo di Yara in un campo di Chignolo d’Isola, a una manciata di chilometri da casa, verso Sud.
Yara uccisa con un taglierino, spogliata e poi rivestita, Yara molestata da un maniaco, Yara morta di stenti. Giornalisti e commentatori più o meno esperti ne dicono di ogni sorta, ma è l’autopsia, alla fine a dire la verità: Yara è morta di inedia nel campo. Qualcuno, insomma, l’ha abbandonata ferita di notte in quel campo e la ragazza, incapace di chiedere e raggiungere soccorsi, è morta poche ore dopo. Sulla procura di Bergamo preme un’attenzione spasmodica. Di quello che è accaduto il 26 novembre non si sa nulla, ma sul corpo di Yara ci sono tracce di DNA maschile su parti del corpo e degli indumenti che sono contestuali all’aggressione. È qui che appare sulla scena nazionale ‘Ignoto 1′.
Per Yara si scomoda il gotha della genetica forense e, attraverso DNA ottenuto con la campionatura della saliva di ogni cittadino maschio a Brembate e nei comuni limitrofi, si risale all’identità del padre del killer. Trovato Giuseppe Guerinoni parte la caccia alla madre e sì arriva così a Ester Arzuffi, identificata attraverso l’allele 26. Massimo Bossetti viene identificato arrestato poco dopo, con tanto di tweet trionfante dell’allora ministro dell’Interno, Angelino Alfano.
Dal 2014 e per quattro anni, la vita di Massimo Bossetti e della moglie, Marita Comi, viene dissezionata dalla stampa. Nel 2018 arriva la sentenza definitiva a carico di Massimo Giuseppe Bossetti, condannato all’ergastolo per omicidio volontario. La sentenza, sacrosanta per alcuni, controversa per altri è la pietra miliare di un nuovo metodo investigativo che mette la scienza al di sopra delle indagini tradizionali. Se per qualcuno Bossetti non è l’assassino, per qualcun altro, invece, quello sessuale non è il movente. E non è un’opinione come tante. Nel libro ‘Zero, zero, zero’, lo scrittore Roberto Saviano, ipotizza come movente la vendetta.
Scava nelle maglie delle relazioni che legano i personaggi gli uni agli altri, non solo è possibile collegare Bossetti, come fatto dalla sentenza, a Yara, attraverso la conoscenza del padre geometra, capo del cantiere dove i cani continuavano a fiutare tracce di Yara e riconducibile alla ditta Lopav, di proprietà di uno dei figli di Pasquale Locatelli, pregiudicato per traffico di droga. L’ipotesi dell’omicidio come vendetta trasversale viene smentita nel momento in cui Fulvio Gambirasio, conferma di non aver mai partecipato in qualità di testimone a un processo contro Locatelli, che per questo querela Saviano. Nella vicenda di Yara, dunque, non è mancata nemmeno la pista criminale.
Un delitto che ha segnato così profondamente la cronaca del Paese dovrebbe almeno aver avuto il pregio di aver stimolato nell’opinione pubblica una diversa sensibilità, ma non è stato così. Mentre affidiamo Massimo Bossetti alle cronache locali, ci prepariamo prossimo legal drama, che certo non si farà attendere. E Yara, intanto, continua a sorridere dalla foto. (Fanpage)