Il tragico destino di Alfredino, la morte in diretta: nessuno mai potrà dimenticare quel giorno
Sono stati giorni indimenticabili, era il 1981 quando i telegiornali italiani annunciarono l’incidente di Vermicino. Un bambino di sei anni – e chi può dimenticare il suo nome – Alfredino Rampi, scivolò in un pozzo artesiano nella campagna di Frascati. Giorni che, a partire dalle ore 19.00 del 10 fino al 13 giugno, hanno straziato il cuore dell’Italia intera. Il peggiore degli incubi di ogni madre o padre si avverava, accompagnato da uno spietato senso di impotenza e al tempo stesso di intensa speranza nell’essere disposti a tutto pur di salvare la vita di Alfredino. In quei momenti interminabili era solo di lui che si parlava. L’Italia pregava per la sua salvezza. I tre giorni furono infiniti per tutti, attimi strazianti in cui, in diretta Tv, si è assistito ai tentativi più disparati di liberare il bambino, a cominciare dall’intervento dei vigili del fuoco, a quello di acrobati professionisti e finanche di speleologi.
La vita di Alfredino sopra ogni cosa
In quei giorni non esisteva più la politica con i suoi scandali, né altre vicende di cronaca, tutto si era fermato, la vita degli italiani era stata inghiottita da una dimensione atemporale, da una corsa contro il tempo in cui chiunque sarebbe stato disposto ad intervenire. Gli spazi angusti del pozzo indussero uomini di esile corporatura ad improvvisarsi eroi, disposti a calarsi nel pozzo pur di riuscire a recuperare il bambino. Ad accrescere la paura e il dolore degli italiani, non era solo l’apprensione per la condizione fisica ma anche verso lo stato psicologico del bambino. Erano prima 30 e poi, a causa di complicazioni durante gli interventi, 60 i metri di profondità del pozzo, che separavano il bimbo dalla vita, dall’amore della famiglia e dalle cure necessarie alla sua ripresa fisica, 60 metri sotto terra dove Alfredino non poteva che aspettare e insieme a lui l’Italia intera, che non si staccava dal televisore neanche di notte, nella speranza di assistere all’intervento salvifico di Alfredino Rampi, che in quei giorni era il figlio, il fratello minore, il nipote dell’Italia intera.
Il cronismo h24 della vicenda
La vicenda in diretta Tv aveva, per la prima volta, monopolizzato non solo l’attenzione ma anche il cuore di tutti gli italiani, dal presidente della Repubblica Sandro Pertini alla gente più comune. La vita di Alfredino era l’unica cosa che contava in quei tre giorni strazianti, in cui ogni umano gesto si caricava di angoscia e commozione, come le parole dei volontari, che calati nel pozzo riuscivano a confortare il bimbo sussurrandogli parole per incoraggiarlo a resistere.
La morte in diretta Tv
La morte, nella sua veste più spietata e fatalisticamente crudele, era in diretta tv e nell’animo di tutti, perché per Alfredino non ci fu niente da fare e il 13 giugno dell’81 morì, anche a causa delle immissioni di azoto liquido che portavano il corpo in ipotermia. Senso di impotenza, panico e sensi di colpa per le scelte sbagliate negli interventi, confermate dalle parole del minatore Torello Martinozzi, che riportò il corpo in superficie. Parole che diedero il colpo di grazia a quel dolore sempre più profondo, che si era innescato in un intero paese, dolore che presto si trasformò inevitabilmente in rabbia verso quel destino bastardo. Ed è così che si espresse Martinozzi:
Non mi toglierò più dalla mente quel piedino e i calzoncini rossi che affiorano dalla terra. Sono convinto che se a Vermicino avessero mandato subito qualcuno che se ne intendeva la storia avrebbe avuto un finale diverso. Avrebbero dovuto chiedersi per quale motivo il bambino si era fermato a trenta metri in un primo momento. Nella risposta c’era anche la soluzione per salvarlo. Invece, utilizzarono una trivella a percussione che scavava a neanche un metro dal pozzo artesiano di Alfredino. Lo fecero scivolare giù, a sessanta metri.
La storia di Alfredino, metafora dell’impotenza umana
La tragedia di Vermicino non potrà mai essere dimenticata da chi in quei giorni era davanti la TV nell’attesa spasmodica della salvezza di Alfredino. Ha peraltro inaugurato una nuova fase del giornalismo e del cronismo: la morte era in diretta, non come spettacolo ma realtà tangibile, agghiacciante e mai come in quella occasione fu così difficile il mestiere del giornalista che non poté riportare nessuna buona notizia. La storia di Alfredino è un trauma nella vita di tutti, e anche chi non l’ha vissuta ma l’ha solo sentita raccontare ne è rimasto profondamente colpito. La sua morte è una perdita concreta e una metafora dell’impotenza e della inscampabile precarietà della condizione umana. Questa tragedia ha però qualcosa di buono: Alfredino ha raccolto, in un unico abbraccio, tutta l’umanità del mondo. (Fanpage)