Giuseppe Remuzzi: “Il fumo aumenta il rischio di Coronavirus”

3 Marzo 2020 - 19:27

Giuseppe Remuzzi: “Il fumo aumenta il rischio di Coronavirus”

Giuseppe Remuzzi: “Il fumo aumenta il rischio di Coronavirus”

Secondo il network statale cinese Cgtn ci sarebbero sette casi di contagi di ritorno nella provincia dello Zhejiang: si tratta di cittadini cinesi che avrebbero lavorato in un ristorante di Bergamo. Poi c’è il caso di Ivo Cilesi, bergamasco di Cene, positivo al Covid-19 e deceduto lunedì all’ospedale di Parma. E adesso la bambina di un anno grave al Papa Giovanni XXIII. Chiediamo al professor Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri, se possiamo parlare di un nuovo focolaio a Bergamo. «Non abbiamo certezze, ma non lo possiamo escludere», risponde. «Intanto i sette cinesi sono tutti da verificare: per adesso sono le autorità locali che dicono che sono risultati positivi al coronavirus, ma non abbiamo la controprova; il tampone lo hanno fatto lì. Non sappiamo dove hanno contratto il virus».

E per quel che riguarda Ivo Cilesi? È un fatto che la provincia di Bergamo sia quella con più contagi in Lombardia, dopo il Lodigiano.
«Io vedo che il focolaio è cominciato ad Alzano Lombardo, per poi estendersi a Nembro; Cene e Gazzaniga sono lì vicino. Lì sicuramente c’è un’area molto particolare. Non sappiamo a quali fattori di rischio fosse esposto Cilesi. Uno, per esempio, è il fumo, perché compromette le vie respiratorie».

Ormai sono passate quasi due settimane da quando siamo stati investiti dall’emergenza del coronavirus. Possiamo dire che ci ha insegnato qualcosa di buono?
«Sono diverse le cose positive “portate” dal coronavirus. Anzitutto ho visto una straordinaria collaborazione tra colleghi di discipline diverse: pneumologi che hanno lavorato con infettivologi, gastroenterologi, internisti e nefrologi. Il turno di guardia lo fanno tutti per tutti, incluso ematologi e oncologi».

Collaborazione e poi?
«Sappiamo che fino al 90 per cento di chi va al Pronto soccorso sarebbe potuto rimanere a casa. Tolto il primo momento, in cui tutti volevano fare il tampone per il Covid-19, le persone hanno capito che dovevano restare a casa tranquille: ora al Pronto soccorso va solo chi ne ha davvero bisogno.».

Nuovi modelli di intervento?
«Si è rivelato importantissimo l’intervento precoce Cpap, Continuous positive airway pressure/power, che è un tipo di pressione positiva sulle vie aeree per reclutare il maggior numero di alveoli polmonari altrimenti esclusi. In molti casi evita l’intubazione e il ricovero in terapia intensiva. A Bergamo, e in particolare in occasione del coronavirus, ci si è accorti immediatamente di quanto questo strumento poteva essere prezioso».

Professore, c’è chi dice che siamo di fronte a una normale influenza. È vero?
«Sarà anche vero, ma 44 polmoniti interstiziali anomale in un ospedale medio-piccolo non le avevamo mai viste».

A proposito di ospedali. Adesso sono stati coinvolte le strutture private. Per restare nella zona che lei conosce bene, la Bergamasca, l’ospedale di Seriate è stato coinvolto nella gestione dei malati.
«Questo è un provvedimento estremamente importante: la Regione ha identificato Lodi, Seriate e Crema come Ospedali a vocazione Coronavirus. I reparti di medicina di quegli Ospedali diventeranno in pratica pneumologie con tutto quello che serve per un’assistenza respiratoria veramente precoce. È una cosa molto positiva che noi raccomandiamo da tempi non sospetti. Il privato deve poter integrare e supportare il servizio sanitario pubblico quando serve. Fermo restando che noi abbiamo un servizio sanitario nazionale eccellente. Non oso pensare a cosa succederà adesso in America: chi paga i tamponi? Le assicurazioni copriranno le spese? E chi non ha l’assicurazione?».

Cos’altro abbiamo imparato dal coronavirus?
«Che ci vuole una regia unica. La Regione ha fatto molto e bene, ma ci vuole un governo centrale, un generale che detti la linea e dei colonnelli che la facciano seguire. Perdoni la metafora militare, ma non si può agire con singole iniziative».

Prima ha parlato di ospedali di medie-piccole dimensioni costretti a gestire l’emergenza di 44 casi di polmonite. Non sarebbe meglio farla gestire solo alle grandi strutture?
«Indipendentemente dal coronavirus, i piccoli ospedali dovrebbero essere presidi di salute capaci di venire incontro ai bisogni più immediati del territorio basati soprattutto su infermieri esperti e qualificati. I casi più complessi vanno trasferiti nei grandi ospedali».

C’è tuttora una grande generosità da parte del personale sanitario. Gli specializzandi all’ospedale Papa Giovanni XXIII stanno facendo turni da 13-14 ore.
«Gli specializzandi sono un grande tema. Si sono rivelati preziosissimi e dovremmo poterli pagare il giusto e assumere al più presto. Proprio su questo giornale mesi fa ho lanciato la proposta di introdurre specialità più brevi e formazione online, per lasciare in corsia da subito e il più possibile i giovani laureati».

Il medico di famiglia è un’altra figura valorizzata in questi tempi di coronavirus.
«Sì, e deve tornare a essere il perno del servizio sanitario nazionale. Il medico di famiglia è la prima persona da contattare per telefono, all’insorgenza dei sintomi, l’unica in grado di dirti se devi stare a letto o no».

Ne usciremo e quando?
«Certi modelli matematici dicono che il picco dei contagi arriverà il 5 marzo e poi comincerà a stabilizzarsi. Non è detto che sia davvero così, altri modelli prevedono una crescita. In Cina i casi stanno diminuendo, in Corea del Sud no. In questo momento il Nord Italia assomiglia di più al modello coreano».

Fonte: corriere.it