“Oltre alle 54 provette con dentro il Dna di ‘ignoto 1′, c’erano anche 23 ulteriori provette di diluizione che potrebbero essere analizzate”.
Sono le parole di Claudio Salvagni e Paolo Camporini a margine dell’udienza nella quale ieri pomeriggio 13 maggio, davanti ai giudici della corte d’Assise di Bergamo, per la prima volta a quasi 14 anni dall’omicidio di Yara Gambirasio.
La difesa di Massimo Bossetti ha potuto visionare (ma non fotografare) i reperti che hanno portato alla condanna in via definitiva all’ergastolo dell’imputato.
L’ex muratore di Mapello ha partecipato in video collegamento dal carcere a Bollate.
Ora è probabile che i suoi avvocati chiederanno al giudice dell’esecuzione, ovvero la Corte d’assise di Bergamo, di poter effettuare analisi su quei campioni.
Quelle provette erano state conservate a -80 gradi nell’Istituto San Raffaele.
Dopo l’analisi, erano state custodite nell’ufficio corpi di reato che, come in tutti i tribunali, non ha congelatori come quelli a disposizione negli istituti di ricerca.
Salvagni e Camporini hanno potuto guardare quanto rimasto sigillato a lungo in uno scatolone.
In particolare , i legali di Bossetti volevano visionare leggings e slip da cui fu tratta la traccia di Dna considerata la prova regina a carico dell’imputato.
Tra i reperti c’era pure la felpa che Yara indossava il 26 novembre 2010, giorno della scomparsa; e il giubbotto che aveva nel campo di Chignolo d’Isola dove è stata trovata senza vita tre mesi dopo.
Da alcune provette non è possibile desumere il campione però ci sono altre 23 provette che però bisognerà verificare cosa ci possono dire.
Verificheremo se manca qualcosa e poi lo step successivo, ci auguriamo di poter formulare un’istanza.
Finalmente dopo 10 anni siamo riusciti a vedere questi reperti e siamo ottimisti sul fatto che ci possa essere consentita la possibilità di verificare quello che può essere il risultato delle analisi”, hanno aggiunto Claudio Salvagni e Paolo Camporini.