Violenza sulle donne, con il Lockdown salite le richieste di aiuto

22 Novembre 2020 - 12:12

Violenza sulle donne, con il Lockdown salite le richieste di aiuto

Durante la prima settimana di lockdown, a marzo, il cellulare per le emergenze del Centro contro la violenza sulle donne Roberta Lanzino di Cosenza non ha mai squillato.

«Era un silenzio assordante: abbiamo capito subito che la situazione era così difficile per le vittime che non riuscivano neppure a fare una telefonata» racconta Chiara Gravina, una delle avvocate del Lanzino. «Poi ha squillato e abbiamo avuto la dimensione della nostra impotenza», aggiunge. A chiamare era una donna che era dovuta fuggire da casa perché rischiava la vita. «Era nella piazzola di un distributore di benzina e non sapeva dove andare. Le strutture di prima accoglienza, a causa del lockdown, non potevano far entrare nuove ospiti. Il nostro centro era chiuso alle persone esterne. Gli spostamenti tra comuni erano vietati. Dopo un pomeriggio al telefono con case rifugio e forze dell’ordine siamo riuscite ad accordarci con la prefettura ed è andata lì. Ma una volta arrivata abbiamo perso tutti i contatti» spiega. È un problema, perché il percorso per uscire dalla violenza è complesso e le donne hanno bisogno di un sostegno integrato — psicologico, legale, a volte medico, spesso di inserimento al lavoro — che solo l’assistenza continuativa dei centri riesce a dare.

Non è un caso isolato. Secondo il rapporto 2020 di ActionAid sul sistema antiviolenza in Italia, le richieste di aiuto al numero antiviolenza 1522 tra marzo e giugno 2020 sono state 15.280, più del doppio che nello stesso periodo del 2019 (+119,6%). Le donne chiuse in casa erano ancora più esposte agli abusi degli uomini maltrattanti. Ma i cronici ritardi nei finanziamenti e la mancanza di un coordinamento tra le istituzioni sui territori hanno reso ancora più difficile il lavoro dei centri: molti, ha rilevato ActionAid, sono stati costretti a sospendere gli stipendi delle operatrici e a cercare fondi esterni per comprare mascherine e guanti (distribuiti solo in pochissimi casi dalle istituzioni locali). Non hanno avuto la possibilità di accedere ai tamponi necessari per far entrare le donne nei rifugi, si sono trovati senza spazi adeguati per le quarantene cautelative delle donne e dei bambini soccorsi e hanno dovuto pagare extra bed & breakfast e alloggi per le vittime che avevano bisogno di protezione immediata dagli uomini violenti. «Noi accogliamo molte donne in emergenza: di norma stanno da noi una settimana e poi vengono trasferite in strutture specifiche. Ma è diventato e tuttora è tutto molto più difficile, perché c’è la quarantena cautelativa e tutti i percorsi si sono allungati, compresi quelli giudiziari e l’assistenza dei servizi sociali per i figli. Anche il codice rosa, il triage nei pronto soccorso per le possibili vittime di violenza, che permette di ricoverarle in ospedale per 24 ore in attesa di trovare una struttura di accoglienza, è messo in difficoltà dalla crisi sanitaria» dice Cristina Rubagotti, operatrice del centro Cadom Monza.

Il 21 marzo il Dipartimento delle pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei ministri ha stabilito che le spese in più dovute all’epidemia sarebbero state a suo carico. E il ministero dell’Interno ha chiesto a tutti i prefetti di individuare ed eventualmente requisire delle strutture, una sorta di hotel Covid per la quarantena preventiva, che funzionassero da cuscino tra la presa in carico in emergenza delle vittime e l’ingresso nelle strutture di accoglienza. Ma i fondi straordinari non sono ancora arrivati ai centri. E anche le strutture intermedie prefettizie mancano ancora, praticamente ovunque. «Con la seconda ondata della pandemia e le nuove chiusure territoriali, i centri antiviolenza corrono il rischio di arrivare al limite delle proprie capacità di sopravvivenza — spiega Elisa Visconti, Responsabile dei Programmi di ActionAid —. Servono un Fondo di emergenza straordinario e coordinamenti per le reti territoriali».
Anche perché sul sistema antiviolenza pesano i problemi strutturali di finanziamento che già ne mettono a rischio il funzionamento ordinario. «Nonostante le Regioni negli ultimi tre anni abbiano fatto qualche passo, i fondi ci mettono ancora dai 10 ai 12 mesi per arrivare» dice Isabella Orfano che ha curato il rapporto di ActionAid. Al 15 ottobre, data d chiusura del rapporto, le Regioni dovevano ancora erogare il 28% dei finanziamenti per il 2015-2016, il 33% di quelli del 2017, il 61% per il 2018. E il 90% dei soldi stanziati per il 2019. Ma i centri li hanno già spesi. Solo cinque regioni hanno iniziato a trasferire i fondi dell’anno scorso e solo parzialmente: Abruzzo, Friuli Venezia-Giulia, Lombardia, Molise e Veneto. Il Dipartimento delle Pari opportunità, infine, non ha ancora firmato il decreto per stanziare i 28 milioni di euro previsti per il 2020.

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