In vista dell’udienza della Cassazione che il 3 maggio metterà fine alla lunga vicenda giudiziaria , che vede lei e i familiari colpevoli dell’omicidio del suo fidanzato Marco Vannini, Martina Ciontoli affida al Tg2 una lettera nella quale racconta il suo stato d’animo.
Ci sarebbe da dire ” Che faccia tosta”.
Si infanga ancora la memoria di questo ragazzo , morto in modo crudele .
Marco poteva essere salvato ma quella maledetta sera , nessuno lo aiutò.
Sono ancora vive nelle nostre menti , le sue urla strazianti, intercettate in una delle tante ed inutili telefonate , fatte al 118.
Marco chiedeva aiuto, Marco voleva sua madre , ma nessuno ha fatto nulla.
Per Mamma Marina queste parole della ex fidanzata sono un doppio insulto.
Insulto alla memoria del suo unico figlio .
Ecco una sintesi delle sue parole che ci fanno ancora più rabbia :
Avevo 19 anni, Marco 20, quando una notte, all’improvviso, cambiava tutto. Per mano di mio padre.
Per uno scherzo… Io non avevo capito niente. Marco stava morendo.
Sono sensi di colpa? Chissà ma ora è troppo tardi diremo .
Ripercorriamo un po’ la vicenda .
Il 17 maggio del 2015, Marco Vannini muore a Ladispoli nella casa della fidanzata Martina Ciontoli.
La causa, un colpo d’arma da fuoco.
Dopo lo sparo vengono chiamati i soccorsi ma la prima telefonata per l’arrivo di un’ambulanza (come dimostrano le registrazioni a disposizione della magistratura) viene annullata.
Sotto si sentono le grida strazianti di Marco che chiedeva aiuto e che chiamava la sua mamma.
Ma i Ciontoli liquidano l’operatrice del 118 dicendo che Marco si è solo spaventato tanto per un colpo d’aria.
Un’ora più tardi parte una seconda telefonata, ma anche questa volta l’incidente viene minimizzato: nessuno parla di un colpo d’arma da fuoco, quello che ha trapassato il polmone di Marco dopo essere entrato da sotto il suo braccio destro.
All’operatore dell’emergenza sanitaria, chi chiama riferisce di un non precisato «buchino con il pettine».
Secondo l’accusa, l’intento di Antonio Ciontoli era chiaro: avrebbe tentato di rifiutare qualsiasi tipo d’intervento esterno per salvare la vita del ragazzo.