Spara! Sparami qui! Vediamo se sei capace“. Devono essere stati più o meno queste, secondo la ricostruzione degli inquirenti, le parole rivolte da Arcangelo Correra al suo amico Renato Caiafa, che brandiva la pistola che poi lo ha ucciso.
La ricostruzione dell’omicidio di Arcangelo Correra nell’ordinanza del Gip di Napoli
“Arcangelo lo sfidava a sparare, mostrando il petto… tutti guardavano nella loro direzione e, una volta esploso il colpo, gli hanno urlato ‘cosa hai fatto’”: è da brividi il racconto contenuto nell’ordinanza con la quale il gip di Napoli ha disposto il carcere per il 19enne Caiafa reo confesso dell’omicidio dell’amico di 18 anni.
Arcangelo è stato ferito a morte all’alba di sabato 9 novembre in una piazzetta nel cuore di Napoli e poi è morto verso le 11:00 nell’ospedale Vecchio Pellegrini dove lo stesso Caiafa e un altro ragazzo l’avevano accompagnato in sella a uno scooter.
Il 19enne ha più volte sostenuto di avere reso conto che quella era un’arma vera e propria solo “al momento dello sparo” e solo dopo avere visto “il sangue di Arcangelo a terra”.
E, afferma il gip, sebbene possa ritenersi plausibile l’ipotesi del gioco finito in tragedia (come riferito anche da una fonte confidenziale), è invece inverosimile che, come sostenuto dal ragazzo, l’arma sia stata trovata per caso, sopra la ruota di una macchina parcheggiata.
A Caiafa per ora viene contestato il porto, la custodia e la ricetta della pistola che ha sparato, una calibro 9×21 rubata, con la matricola cancellata, senza il tappo rosso e con il caricatore maggiorato, nascosta e recuperata solo grazie alla madre dell’indagato.
Renato Caiafa sostiene di essersi reso conto che si trattava di una vera arma al momento dello sparo
Un’arma (“forse destinata all’uso predatorio”) che Caiafa avrebbe scorto sullo pneumatico di un’auto parcheggiata e poi preso, non sapendo se vera o giocattolo.
Ma, per il giudice, solo chi sapeva che era lì poteva recuperarla nelle prime e più buie ore di quel drammatico sabato, in quanto si tratta di un’arma nera, nascosta tra una ruota anch’essa nera e la carrozzeria della vettura. In sostanza, secondo il gip, l’arma era già nella disponibilità di quei quattro ragazzi.
“Nessuno avrebbe lasciato un’arma carica, considerato il suo valore… la criminalità tende ad acquisire il possesso di questo tipo di armi… possono essere usate mille e mille volte” perché “clandestino, difficilmente ricollegabili ai delitti e ai loro autori”.
All’autorità giudiziaria, inoltre, appare quantomeno strana la circostanza che Caiafa, dopo aver accompagnato l’amico moribondo in ospedale su uno scooter malgrado sconfortato abbia trovato la lucidità di chiedere allo zio di recuperare la pistola lasciata in piazza, spingendolo praticamente a commettere un reato.