Nella prima legge di bilancio varata dal governo Meloni sarà presente la cosiddetta Opzione Donna,la quale permetterà alle donne che svolgono un lavoro usurante di andare in pensione anticipata.
Dal 2023 sarà possibile andare in pensione con 35 anni di contributi ma con almeno 60 anni di età. Le lavoratrici con un figlio usciranno a 59, chi ne ha due uscirà a 58. Ma sempre con il ricalcolo dell’assegno che arriva a tagliare il 30% del contributo finale.
L’Inps ricorda che “Opzione donna” è «un trattamento pensionistico calcolato secondo le regole di calcolo del sistema contributivo ed erogato, a domanda, in favore delle lavoratrici dipendenti e autonome che hanno maturato i requisiti previsti dalla legge entro il 31 dicembre 2021». Possono accedervi le lavoratrici «che abbiano maturato, entro il 31 dicembre 2021, un’anzianità contributiva pari o superiore a 35 anni ed un’età anagrafica pari o superiore a 58 anni (per le lavoratrici dipendenti) e a 59 anni (per le lavoratrici autonome)». La nuova versione invece porterà l’anticipo differenziato a seconda del numero di figli. Ed è proprio qui il problema. Il Fatto Quotidiano raccoglie prima di tutto l’opinione di Gaetano Azzariti. Il professore ordinario di diritto costituzionale a La Sapienza spiega che si tratta di «una distinzione irragionevole che può portare a sollevare la violazione del principio di uguaglianza», previsto dall’articolo 3 della Costituzione.
Secondo Azzariti in questo modo si discriminano le coppie che non possono avere figli. Così come chi sceglie di non averne. «Si tratta di una misura ideologica. E intervenire sui diritti della fine del lavoro in base a un criterio del tutto irragionevole certamente non è giustificabile. Ammesso che si voglia favorire la maternità, ciò si deve assicurare quando i figli sono minorenni.
Fonte: open