Laura (nome di fantasia) è una ragazza di 30 anni che ha avuto un aborto terapeutico alla 22esima settimana. La ragazza non ha ricevuto il supporto da lei sperato durante questo percorso. Anzi, ha subito tante indifferenze, violenze, umiliazioni.
“Senza dirmi nulla mi hanno portata in una stanza a fare un’ecografia. Ho chiesto alla dottoressa quale fosse il senso dato che l’amniocentesi e tutti gli esami avevano accertato la Trisomia 21, mi ha risposto che era prassi e voleva controllare anche lei. A un certo punto ha messo il battito. Le ho chiesto perché stesse facendo questa cosa, l’ecografia con lo specialista l’avevo già fatta. Mi ha detto che secondo lei la bambina stava bene e che abortivo ‘a discrezione mia’. Tornata in reparto hanno aggiunto l’ecografia nella cartella clinica davanti a me, ma quando me l’hanno consegnata non ce ne era più traccia.
Per me è stato tutto molto difficile, non ho trovato né empatia né appoggio. La mia gravidanza era voluta, ma poi abbiamo scoperto che il feto era affetto da Trisomia 21. La decisione che io e il mio compagno abbiamo preso non è stata facile. Non siamo stati supportati da nessuno, a partire da quello che era il mio ginecologo: dopo avermi comunicato l’esito del Dna fetale è sparito, dicendo che se volevo interrompere la gravidanza mi sarei dovuta rivolgere a un’altra struttura. Non mi ha spiegato nulla di ciò che avrei dovuto fare”.
Dopo aver scelto di abortire, Laura ha innanzitutto affrontato un colloquio con la psicologa. “Non mi ha chiesto nulla sull’interruzione, mi ha detto che avendo un caso di sindrome di Down in famiglia avrei dovuto aspettarmelo che poteva succedere anche a me. In realtà con la cordocentesi ho scoperto che era stata una casualità, non c’era nessun fattore ereditario.
Ero immersa in una sorta di limbo protettivo, non mi rendevo conto che stavo vivendo delle violenze. Passato del tempo ho capito che non era normale quello che mi era successo”.
Il giorno dell’interruzione di gravidanza, Laura è stata ricoverata. “Erano solo in quattro del personale medico su quel piano. Dopo aver preso la pillola ho cominciato ad avere dolori atroci, stavo malissimo. Ho chiesto degli antidolorifici, non me li hanno voluti dare. Una ragazza che si trovava in stanza con me è corsa a chiamare un infermiere perché avevo cominciato a vomitare, lui mi ha guardato con disprezzo e ha detto ‘lasciala stare, fanno tutte così’.
Dopo otto ore l’ostetrica si è degnata di tornare. Quando ho avuto l’espulsione del feto, non mi hanno fatto espellere la placenta. Sono stata male altre ore senza che nessuno mi dicesse perché, fino a che mi hanno fatto il raschiamento. La ginecologa mi ha chiesto se volevo essere ricoverata, le ho risposto che volevo tornare immediatamente a casa mia. La bambina? Non mi hanno chiesto se volevo vederla, l’hanno messa in un contenitore di plastica e l’hanno portata via.
Nessuno mi diceva cosa potevo fare per alleviare il dolore, per provare a stare meglio. Non ho avuto mezza parola di conforto. Mi chiedo perché quando una donna partorisce le viene consentito di avere qualcuno accanto, come una mamma, mentre chi abortisce viene lasciata sola. Avevo bisogno di appoggio umano, di una persona vicina che potesse supportarmi nell’affrontare le contrazioni. E ho dovuto subire anche il trattamento inumano di chi in quel momento avrebbe dovuto aiutarmi”.
Insieme a Laura c’erano altre ragazze a voler interrompere la gravidanza. “Alcune erano state rifiutate da diverse cliniche, altre erano state rimandate fino ad arrivare al limite delle settimane. Ovviamente non giudico nessuna, ognuna decide cosa fare del proprio corpo: ma avrei preferito che i medici valutassero di mettermi in un’altra stanza. Io ero lì non per mia volontà, ci sarebbe dovuta essere un’attenzione diversa”.
Dopo due anni, Laura continua a raccontare la sua storia per diffondere il suo messaggio. “L’aborto è una pratica che deve essere eseguita da tutti i medici, non può esserci l’obiezione di coscienza. Sono io che decido, non è una scelta tua, è una scelta mia. Se qualcuno deve avere rimorsi, sensi di colpa, obiezione personale, quella al massimo devo essere io. Lì non ci volevo stare, e con me c’erano ragazze che abortivano per altri motivi. Non ho giudicato perché nessuno deve permettersi di scegliere al posto tuo. Dopo cinquant’anni dobbiamo ancora combattere ciò per cui hanno lottato le nostre nonne, ma va fatto con ogni mezzo possibile”.