La legge approvata definitivamente dalla Camera il primo dicembre del 1970, un martedì come oggi.
Il divorzio in Italia fu approvato, al termine di una seduta parlamentare che durò oltre 18 ore. Erano quasi le sei del mattino, e le votazioni erano iniziate alle dieci del giorno precedente.
La legge numero 898, conosciuta come “Fortuna-Baslini”, dal nome dei due deputati. Loris Fortuna (socialista) e Antonio Baslini (liberale), primi firmatari delle proposte di legge che unite nel corso di un lungo iter di approvazione parlamentare, dopo anni di conflitti che proseguirono anche negli anni successivi e dopo che fuori dal parlamento la riforma era stata chiesta e sostenuta dai movimenti delle donne e dai radicali.
LA STORIA
Nel 1974, dopo che 1 milione e 300mila firme furono depositate in Cassazione, si tenne il referendum abrogativo della legge.
Fu il primo nella storia della Repubblica e venne promosso dalla Democrazia Cristiana di Amintore Fanfani.
Si votò il 12 e il 13 maggio e andarono alle urne più di 33 milioni di persone, l’87,72 per cento di chi ne aveva diritto. I “no” che confermarono il divorzio ottennero il 59,30 per cento, i “sì” il 40,7 e la Baslini-Fortuna fu definitivamente confermata.
L’Avvenire titolò: “Hanno prevalso i no”, ricordando nell’occhiello che milioni di italiani avevano votato contro. L’Unità gli fece eco titolando “Grande vittoria della libertà”, riportando le parole del segretario del Partito Comunista Italiano Enrico Berlinguer.
Numerose, almeno 10, le iniziative legislative che sin dall’Unità d’Italia si sono succedute per inserire nell’ordinamento italiano il divorzio. Tutte bocciate, ad influire pesantemente le gerarchie della Chiesa cattolica.
Nel 1878 ci provò il deputato Salvatore Morelli, rappresentato in una vignetta circondato da donne in abiti maschili con sigaro e cilindro.
Nel 1902 il Governo Zanardelli elaborò una proposta che però non venne mai approvata.
Poi ci furono la guerra, il fascismo, i Patti Lateranensi e passarono più di trent’anni prima che una legge sul divorzio venisse rimessa in discussione.
L’Italia rimaneva uno dei pochi paesi europei in cui vigeva l’indissolubilità del matrimonio che poteva essere sciolto solo per la morte di uno dei due coniugi, a pagarne maggiormente le conseguenze dello stigma sociale e anche delle “punizioni” detentive, la donna.
Sino ad allora era previsto l’istituto giuridico della separazione legale: un giudice poteva cioè riconoscere che due persone non potessero più continuare a vivere insieme, ma quelle stesse persone dovevano rimanere legate dall’obbligo della fedeltà e dell’assistenza reciproca: non potevano dunque formare una nuova famiglia.
Era invece possibile ottenere l’annullamento attraverso la Sacra Rota, ma solo in casi ritenuti eccezionali e solo per chi poteva permettersi tutta la procedura.
Il lungo iter parlamentare sul divorzio iniziò durante la V legislatura del governo Colombo, quando il deputato socialista Loris Fortuna, esponente della Democrazia Cristiana presentò nell’ottobre del 1965 un progetto di legge sui “Casi di scioglimento del matrimonio”.
Lo scontro fu da subito molto violento, tra uno schieramento laico che appoggiava il progetto Fortuna e i deputati cattolici che arrivarono a denunciarne il «contenuto rivoluzionario». Da una parte, c’era l’intransigenza della DC, del Movimento Sociale Italiano e dei monarchici, dall’altra il favore del PSI, dei radicali e dei movimenti delle donne e dell’UDI, l’Unione donne italiane, mentre il PCI, dopo molte incertezze sull’impegnarsi o meno sulla questione, prese una posizione netta a favore solo in piena campagna referendaria.
Nel 1968, il deputato liberale Baslini presentò un nuovo progetto di legge, più moderato rispetto alla proposta Fortuna. Ma visto che entrambi i testi prevedevano l’introduzione nell’ordinamento italiano dell’istituto del divorzio, vennero uniti in una medesima proposta di legge nell’aprile del 1969, che passò poi al voto del Parlamento.
Un discorso difficile quello sul divorzio, dalle molteplici conseguenze, prima tra tutte la riforma del Diritto di famiglia italiano.
L’indissolubilità del vincolo matrimoniale per alcuni ferì ed indebolì il concetto di famiglia o di contro consentì il recupero di rapporti che minavano dolorosamente la vita interpersonale. Avrebbe tutelato o offeso la morale, questo provvedimento normativo?
Avrebbe protetto i figli, nati anche non in costanza di matrimonio, tantissimi i figli di “NN” (nescio nomen, non conosco nome)” che solo nel ‘75 attraverso l’interesse della socialista Lina Merlin, videro abolita la dicitura infamante e discriminante che accompagnava le proprie generalità.
Una «scelta di libertà» disse Fontana che dichiarò «Nessuno sarà obbligato. Chi per propria coscienza ritenga di non doverlo fare non lo farà» e parlò della necessità «di trovare un rimedio a situazioni completamente bloccate dalla realtà».
Nilde Iotti, il 25 novembre del 1969, quando l’iter legislativo era ormai alle ultime battute, chiese la parola alla Camera dei Deputati, e fece un discorso diventato storico e famoso per la storia dei diritti delle donne:
«Nel passato la famiglia ha costituito essenzialmente un momento di aggregazione della società umana, basato su motivi molto diversi, l’accasamento particolarmente per le donne, la procreazione dei figli, la trasmissione del patrimonio. Questi erano i motivi fondamentali che portavano alla costituzione della famiglia; la famiglia, cioè, ha risposto, in qualche modo, alla ricerca di collocazione sociale degli individui. (…) A noi pare che ciò che nel mondo moderno spinge le persone al matrimonio ed alla formazione della famiglia, ciò che rende morale nella coscienza popolare la formazione della famiglia, sia in primo luogo l’esistenza di sentimenti. (…) Questa, io credo, è oggi la base morale del matrimonio. (…)
(…) Vedete, onorevoli colleghi: per quanto siano forti i sentimenti che uniscono un uomo e una donna – in ogni tempo, ma soprattutto direi, nel mondo di oggi – essi possono anche mutare; e quando non esistono più i sentimenti, non esiste neppure più, per le ragioni prima illustrate, il fondamento morale su cui si basa la vita familiare. Abbiamo dunque bisogno di ammettere la possibilità della separazione e dello scioglimento del matrimonio.
(…) Certo, noi sappiamo molto bene che quando una famiglia si dissolve la condizione dei figli diviene estremamente grave; noi non possiamo disinteressarcene, come se questo fatto non esistesse. Ma credo che vi sia un fatto che precede questo e che non possiamo dimenticare, e cioè che i figli sono sì importanti nella vita di un nucleo familiare, ma i protagonisti della famiglia non sono i figli: sono il padre e la madre. Sono questi ultimi a determinare la vita familiare ed il livello morale di essa; non la presenza dei figli.
(…) La Chiesa stessa non ha mai fatto questione, nelle sue sentenze di nullità del matrimonio, della presenza dei figli. Non è mai stata questa una ragione che abbia impedito ai tribunali ecclesiastici di emettere sentenze di nullità del matrimonio. (…) Aggiungo, infine, onorevoli colleghi, che la condizione dei figli in una famiglia tenuta insieme per forza, in una famiglia dove la violenza o, peggio – dico peggio – l’indifferenza sono alla base dei rapporti dei coniugi, è la peggiore possibile, e causa la devastazione della loro personalità».
Furono necessarie 33 sedute con l’intervento di 133 deputati dopo la prima approvazione alla Camera, dopodiché la discussione passò al Senato che votò il 9 ottobre del 1970.
Il testo emendato tornò alla Camera che il 1 dicembre del 1970 lo approvò in via definitiva (con 319 sì e 286 no, su 605 votanti e presenti). I divorzi nel primo anno di applicazione della legge furono 17.134, l’anno dopo 31.717.
Nel frattempo, il 31 agosto del 1968, il governo Leone aveva promosso un disegno di legge che sulla base dell’articolo 75 della Costituzione consentiva i referendum abrogativi.
Il 2 dicembre, il quotidiano Avvenire lanciò un appello per indire immediatamente un referendum che cancellasse la legge sul divorzio appena approvata.
La Democrazia Cristiana e il Movimento Sociale Italiano, parlando della legge come del primo passo verso la dissoluzione della società e del suo fondamento, si attivarono subito per il referendum abrogativo. E la campagna fu, di nuovo, molto aspra. Il repubblichino Giorgio Almirante, leader del Movimento Sociale Italiano, fece stampare un manifesto con scritto “Contro gli amici delle Brigate Rosse il 12 maggio vota sì”.
Poco prima del voto Amintore Fanfani disse: «Volete il divorzio? Allora dovete sapere che dopo verrà l’aborto. E dopo ancora, il matrimonio tra omosessuali. E magari vostra moglie vi lascerà per scappare con la serva!». E domenica 12 maggio, papa Paolo VI, affacciandosi dalla finestra per la preghiera di mezzogiorno, dichiarò: «Noi non romperemo ora il silenzio di questa giornata, destinata per gli italiani alla riflessione decisiva, in rapporto con uno dei più gravi doveri per i credenti e per i cittadini, in ordine al bene della famiglia. Noi inviteremo soltanto a mettere questa espressa intenzione, implorante sapienza, nella nostra odierna preghiera alla Madonna».
Dall’altra parte, PCI, PSI, Partito radicale, associazioni laiche e movimenti delle donne continuarono a difendere la “libertà di scelta” e a sostenere il “no” all’oppressione e allo sfruttamento all’interno della famiglia.
Il divorzio vinse. Da questo momento in poi i movimenti femministi cominciarono a porsi il problema della gestione politica di quel che sarebbe accaduto dopo:
«Ogni causa di separazione o di divorzio dovrebbe diventare una vertenza sul lavoro domestico», sostennero la legge del 1970 venne modificata, nel 1978 e nel 1987 quando – ancora grazie all’intervento della presidente della Camera Nilde Iotti, che riuscì a ottenere l’accordo unanime di tutti i gruppi – si ridussero da cinque a tre anni i tempi necessari per arrivare alla sentenza definitiva.
Nel 2015 è stato approvato un disegno di legge ha introdotto il cosiddetto divorzio breve, che riduce il periodo tra separazione e divorzio, e anticipa lo scioglimento della comunione dei beni.
La modifica del diritto di Famiglia che sotto la spinta sociale ha generato consistenti riduzioni dello stigma sociale, non tanto e non solo per i coniugi ma soprattutto per coloro i quali in queste decisioni poco o nulla avevano diritto di influenza cioè i “minori”, i “figli”, nati al difuori del sacro vincolo del matrimonio e che più degli adulti, per la società del tempo, subivano l’etica e la morale pregiudizievole.