I pensieri e le paure di Antonio Sannino, infermiere trasferitosi volontariamente in Rianimazione
Antonio Sannino Infermiere UOC Cardioogia Vanvitelli dell’Azienda dei Colli – Monaldi, trasferito volontariamente presso la UOC Rianimazione COVID-19 per l’emergenza nazionale ci racconta i suoi pensieri, le sue paure e le sue giornate.
Perché hai deciso di “arruolarti” per questo esercito contro il covid-19?
Prima di fare questa scelta esercitavo la mia professione presso la UOC Cardiologia Vanvitelli del Monaldi.
Erano giorni che pensavo di trasferirmi perché mi era giunta notizia che colleghi, con cui avevo lavorato in passato, erano in difficoltà. Sentivo, inoltre, l’esigenza di mettermi nuovamente in gioco e vivere nuove esperienze, in quanto nella vita ti capita raramente di vivere una realtà del genere e mettere in pratica le tue competenze.
Quando poi arrivò la circolare dall’Azienda che cercavano volontari per fronteggiare questa Pandemia, non ho esitato e mi sono proposto nonostante molti non erano d’accordo con la mia scelta.
La cosa che mi ha reso orgoglioso della mia professione è che insieme a me hanno accettato 25 colleghi, giovani, con la voglia di dare il proprio contributo.
Come si svolge la tua giornata in corsia?
Essendo una rianimazione, il lavoro è intensivo. La difficoltà più grande è lavorare ed assistere i pazienti combattendo con un ambiente ostico in quanto dobbiamo indossare, giustamente, tutti i dispositivi di protezione necessari per fronteggiare il virus.
Agire indossando: cappello, occhialini con elastico, mascherina FFP2 e mascherina chirurgica, casco, tuta completa, tripli guanti e scarponi; rende tutto più difficile.
Dopo alcune ore, infatti, inizi a sudare, perché la temperatura all’interno della tuta aumenta, ti senti disidratato, la maschera e gli occhialini iniziano a premerti come un trapano in testa. In pratica due ore vengono percepite come 6 ore.
Fortunatamente ci sono colleghi più esperti che ci consigliano e ognuno di noi guarda e aiuta il collega affianco come se stessimo combattendo una guerra. Sembra un’ esagerazione, ma è la pura realtà.
È un momento di forte tensione, come si cerca di mantenere un clima di “tranquillità” fra colleghi e pazienti?
Sfortunatamente i nostri pazienti sono intubati, per cui non possiamo interagire, ma ognuno di noi sa la situazione in cui ci troviamo e almeno una volta ognuno di noi ha pensato se la scelta fatta fosse stata quella giusta.
Ogni volta entri in sala tutto scompare, l’adrenalina aumenta e pensi solo a fare il tuo dovere.
Quando abbiamo momenti di tranquillità cerchiamo di sdrammatizzare per alleviare la tensione.
Quali sono i tuoi pensieri su questa situazione? Hai paura?
La paura c’ è, ed è tanta, ogni volta, sopratutto all’inizio, all’entrata in ospedale e al ritorno a casa pensi se tutte le azioni per vestirti e svestirti sono state fatte in sicurezza perché la paura più grande, oltre a quella di infettarsi, è quella di infettare i tuoi parenti più cari, non potresti mai perdonartelo. Inizi a percepire tutti i sintomi e anche fare una semplice tosse, ti porta ad avere un’ ansia che non ti dà serenità e tranquillità.
Però alzi la testa e affronti il problema anche fregandotene alcune volte, per quieto vivere.
C’è stata una grande polemica sulla mancanza di un’adeguata attrezzatura negli ospedali, come procede adesso?
Io posso parlare per la mia azienda e in particolare per il mio attuale reparto.
I dispositivi sono contati, si vive alla giornata, ma ci sono e non ci hanno mai fatto lavorare senza protezione.
Fortunatamente abbiamo il nostro primario Dott.ssa Rosanna De Rosa, il nostro capodipartimento il prof. Antonio Corcione e il nostro coordinatore infermieristico dott. Angelo Del Vecchio e dott. Michele Gallifuoco che ci supportano in tutto e ci trasmettono sicurezza rendendosi disponibili su qualsiasi problematica.
Siamo una categoria che dà all’ammalato tutto quello che si può dare in termini di assistenza, ma spero che quando finirà tutto questo ci tratteranno come professionisti sempre e non solo in questi casi di emergenza.
In Italia la professione infermieristica non viene valorizzata e riconosciuta professionalmente come in altri paesi europei e mondiali nonostante negli ultimi 20 anni siamo stati noi a mantenere i LEA.
Parla in questa intervista un Infermiere precario da 10 anni che vuole solo avere, come tutti i suoi colleghi, la giusta valorizzazione professionale perché ama il lavoro che fa.
Giovanna Sannino