Oggi Gattuso compie un anno di azzurro. Arrivò l’11 dicembre del 2019 che a Napoli sembrava quasi un 11 Settembre. Dal Bounty naufragò Ancelotti e salì da una scialuppa Ringhio, nome da lupo di mare che iniziò a prendere i gradi di Generale.
E’ passato un anno di “Ringhio Star” come lo definì De Laurentiis nella presentazione ufficiale nella “Abbey Road” di Castelvolturno. Ringhio non suona la batteria, ma batte forte come un martello.
Ancelotti era noto per il calcio liquido, Gattuso lo trasforma in solido. Metodi draconiani, filosofia calvinista di austerità e rigidità. Lui che ha costruito una carriera su “mazza e panella”, magari con l’aggiunta di un pizzico di ‘nduja, che comunque fanno figli belli.
E calciatori efficienti. Lui bello non era, ma era di quel fascino oscuro che fa innamorare tifosi e suocere. E’ stato l’anticristo del giocatore “dandy” al punto da fargliela pagare appena se lo ritrovava davanti.
Come quando durante una Italia – Inghilterra riferì non proprio epiteti british a David Beckham. Fu un faccia a faccia che non si chiuse esattamente con gli omaggi al Baronetto e alla Regina.
Oppure quando mise due dita negli occhi a Ronaldo nel derby. “L’unico gesto che non rifarei”, disse già in odore di maturità. Ma lo rifece, una notte a San Siro, mettendo il capoccione sotto il mento dello “Squalo” Jordan, uno che di denti ne aveva ancora pochi da perdere.
Poi fece subito atto di contrizione ammettendo la colpa: “mi è scattata l’ignoranza”. Una formula che riscattò simpatia e indulgenza. Oggi Gattuso prenderebbe le distanze da “Ringhio”.
Che poi è un soprannome che non gli piace perché è come negargli un pensiero autonomo al di fuori dello stereotipo. Preferirebbe per esteso il suo battesimo originale, Gennaro.
Che in panchina ha iniziato la sua notte dell’Innominato. Quella della conversione da irruenza ad autorevolezza. Il suo è un continuo inseguirsi. Con modestia si estromette dalla qualità della sua rosa.
“In questa squadra non giocherei, è molto più tecnica di me”. Ma dopo ascolta il richiamo di Ringhio che urla dal passato, quando inneggia ai “coglioni” che il cerimoniale pubblico traduce in attributi.
Gattuso è il “buon selvaggio” l’uomo probo e pacifico di Rousseau che lotta contro i compromessi della civiltà. E’ il Padron ‘Ntoni di Verga, il Patriarca dei Malavoglia, saggio e integerrimo verso il senso del lavoro e del dovere.
E poi c’è Rino, l’amico di famiglia, quello che parla col gruppo non più come un Padre ma come un fratello. Perché la grammatica tecnica più interessante di Gattuso non è chiusa nelle pagine nozionistiche di un manuale, ma nelle pieghe psicologiche.
Checché ne dica il glossario calcistico che oggi si nutre più di numeri che di parole. E dietro alle parole si svela il Gattuso allenatore.
Una dialettica forse più inossidabile del carattere. Che affonda radici e convinzioni in una dimensione in cui i confini del pallone erano meno virtuali e più a misura tradizionale.
Gli viene facile la linea diretta del linguaggio basico, non gli riesce l’artificio, gli sfugge l’arabesco del ricamo. “Veleno”, “coltello tra i denti”, “cattiveria agonistica”, il suo sembra un corredo da trincea.
Ma coniugato al sentimento di chi parla contemporaneamente di Chiesa, del campo dell’oratorio, delle radici umili e della fortuna di poter essere arrivati in un mondo dorato.
Ricordare da dove si è partiti per capire a cosa si può ambire. A Napoli ci ha già trascorso un anno e si trova talmente bene da non voler fare nessun patto con il destino.
Come andrà a finire lo deciderà il cielo. Ma di una cosa può ben essere certo. Trionfare qui gli darebbe più gioia e lustro di un Campionato del Mondo. La più grande occasione che ha Gennaro di vincere per sempre la sfida con Ringhio…
Bruno Marra