La pace nella Striscia di Gaza resta un miraggio fragile. Mentre si discute della cosiddetta “fase due” degli accordi, Israele ha già violato più volte il cessate il fuoco. In questo scenario di incertezza, migliaia di palestinesi si muovono lungo la Striscia nel tentativo di tornare alle proprie città, sperando – quasi sempre invano – di trovare ancora la loro casa in piedi. Nella maggior parte dei casi, ad attenderli non resta che un cumulo di macerie.
Le condizioni di vita continuano a essere drammatiche. Il valico di Rafah, dove da oltre un anno giacciono migliaia di tonnellate di aiuti umanitari raccolti in tutto il mondo, rimane chiuso. Il governo israeliano ha annunciato che non ne consentirà la riapertura finché Hamas non accetterà la seconda parte dell’accordo, quella relativa al disarmo. Così, nonostante la tregua formalmente in vigore, la vita dei palestinesi non è cambiata: mancano cibo, acqua e medicine, gli aiuti non entrano e le bombe non hanno mai smesso di cadere, mentre Trump e Netanyahu hanno raccontato al mondo di “aver fatto la pace”.
Tra le tante voci che raccontano cosa significhi oggi vivere a Gaza, c’è quella di Fatima Yazan, 38 anni, malata, madre di cinque figli, con un marito invalido, oggi rifugiata nel campo profughi di Deir al Balah.
Fatima viveva a Khan Younis. “Da quando è scoppiata la guerra ho sofferto molto – racconta a Fanpage.it –. Avevo già subito due interventi alla schiena per ernie discali. Mio marito è invalido dopo un incidente d’auto e ha bisogno di cure continue. Durante la guerra ho scoperto di essere malata di cancro al seno.”
La sua storia è quella di migliaia di famiglie palestinesi. “Con la guerra ho perso tutto. L’assistenza medica è sparita, e i miei figli soffrono di gravi problemi psicologici per via dei bombardamenti continui.” Dopo i primi attacchi, la famiglia è fuggita a Deir al Balah, trovando rifugio in una scuola dell’UNWRA, “che Israele ha persino definito un’organizzazione terroristica”, spiega Fatima. “Poi una bomba è caduta vicino alla scuola, fortunatamente non è esplosa, ma siamo stati costretti a fuggire di nuovo. Ora viviamo in una tenda nel campo Life and Hope.”
Deir al Balah è uno dei campi profughi più grandi della Striscia di Gaza, nati dopo i bombardamenti del 7 ottobre 2023. Qui si registrano morti per fame, e lo scorso inverno due neonati sono deceduti per il freddo. Fatima e la sua famiglia non possono spostarsi a causa delle gravi condizioni di salute. A sostenerli, da lontano, è l’associazione La Comune ETS di Milano, che cerca di garantire loro un minimo di aiuto.
Neppure dopo la firma del cessate il fuoco la situazione è migliorata. “Siamo sopravvissuti tre volte ai bombardamenti intorno al campo,” racconta Fatima. “Abbiamo sofferto un’epidemia di epatite e poi una di polmonite che si è diffusa tra i rifugiati.”
Anche la distribuzione degli aiuti è rimasta bloccata: “Si parla di cessate il fuoco, ma gli aiuti non entrano, la fame continua, e vediamo ancora operazioni dell’esercito israeliano. Non so se la guerra sia davvero finita. Speriamo solo che la pace diventi reale, ma al momento non riceviamo aiuto da nessuno. I prezzi sono leggermente calati, ma restano fuori portata. Se siamo ancora vivi, lo dobbiamo solo al sostegno di un’associazione italiana.”
Questo è lo scenario della Gaza “del dopo”: un luogo dove la guerra ha lasciato dietro di sé non solo rovine, ma una popolazione mutilata, malata e senza speranza. Sul profilo Facebook di Fatima, un video mostra ciò che resta della loro casa a Khan Younis: un ammasso di macerie, l’intero palazzo crollato sotto le bombe. “Non abbiamo più nulla”, scrive lei.
Fonte: Fanpage.it