Una spirale di violenza anche difficile da immaginare, quella che si è consumata all’interno del carcere di Santa Maria Capua
Vetere. All’inizio del lockdown dello scorso anno, di fronte alle proteste dei detenuti per le condizioni di sovraffollamento, alcuni
agenti di polizia penitenziaria hanno risposto con violenze e torture assolutamente spropositate. Nell’ambito delle indagini,
emerge anche l’inquietante storia di Lamine Hakimi, un detenuto nordafricano affetto da schizofrenia, prima massacrato di botte, poi
costretto a prendere farmaci, tra cui oppiacei, per lenire il dolore e infine morto dopo un mese.
Lamine Hakimi, classificato come pericoloso dalla polizia penitenziaria per la sua condizione psicologica, è morto 28 giorni
dopo essere stato aggredito, a causa di un arresto cardiocircolatorio conseguente a un edema polmonare acuto. Per il pm, nel caso
del detenuto nordafricano, costretto ad assumere in rapida successione e senza alcun controllo sanitario una ingente quantità
tossica di farmaci (oppiacei, neurolettici e benzodiazepine), l’accusa nei confronti degli agenti dovrebbe essere quella di morte come
conseguenza di altro reato. Il giudice, però, aveva classificato quel decesso come suicidio.
Lamine Hakimi morì il 4 maggio 2020 nella sezione Danubio, a distanza di quasi un mese dalle violenze perpetrate dai poliziotti
penitenziari sulle persone ristrette nel Reparto Nilo. Agli altri detenuti in isolamento che soffrivano di varie patologie, secondo
quando riporta l’ordinanza, venne sospesa la somministrazione dei farmaci. Il giorno della morte di Hakimi, inoltre, venne eseguita
un’altra perquisizione personale durante la quale, per l’ennesima volta, gli agenti sputarono sui detenuti e proferirono minacce
nei loro confronti: «mica è finita qua! Avete avuto la colomba, dovete avere ancora l’uovo di Pasqua».
Così come per le altre vittime delle violenze, sono descritte nel dettaglio, nella corposa ordinanza di custodia cautelare emessa dal
gip di Santa Maria Capua Vetere (Caserta), le percosse subìte dal detenuto algerino di 27 anni Lamine Hakimi, morto in cella il 5
maggio 2020. Un trattamento che non si discosta molto da quelle subìte dagli altri carcerati ma esacerbato da un suo tentativo
di ribellione: prelevato con la forza dalla sua cella, la numero 7, del reparto Nilo, percosso con calci, schiaffi, pugni durante il
trasferimento, con una tale frequenza da provocarne lo svenimento.
Hakimi accenna anche a una reazione, sferra un pugno ai poliziotti, dopo essere stato colpito alla testa due volte ma ottiene solo un
ulteriore accanimento nei suoi confronti: testa schiacciata contro il pavimento e colpi di bastone alle costole e alle gambe mentre
viene trascinato per la maglia nel reparto. Diversi carcerati parlano delle sue condizioni e ognuno le definisce peggiori delle proprie: «…stava troppo male, aveva segni di
manganellate dappertutto e un bozzo dietro la testa… sono stato 15 giorni in stanza con lui, lo sogno tutte le notti…». E ancora: «…ha
sempre assunto la terapia psicofarmacologica e lo faceva stare bene…», «…lui stava peggio di me, gli avevano fatto molto male, lo hanno sfondato… stava così male che per 4 giorni
non ha preso la terapia. Dopo 4 giorni si è svegliato e abbiamo parlato…».